La crisi di Facebook arrivò, come in tutti i gialli che si rispettino, con quell’indizio nascosto così bene da essere sotto gli occhi di tutti, secondo quella lunghissima tradizione che dalla Lettera rubata di Edgar Allan Poe rivive appunto in un articolo sbandierato su una rivista non proprio sconosciuta, Forbes, e intitolato senza possibilità di equivoco alcuno: “La fine di Facebook”. Anche la data è da brivido: 15 giugno 2011. Esattamente un anno fa.
D’accordo, adesso che il valore delle azioni del social network è crollato da 42 a 25 dollari, a quasi un mese dal disgraziato debutto al Nasdaq, 18 maggio, siamo tutti bravi a parlare di crisi. Ma a Tim Warstall, lo studioso dell’AdamSmithInstitutedi Londra, bastò una semplice riflessione per predire un anno fa la fine. E che cosa notò il buon Tim? Che per la prima volta nella storia del social forum sempre più gente sceglieva di uscirne: sei milioni solo negli Stati Uniti, quasi un milione in Inghilterra. “Facebook continua ancora a crescere in pagine visitate e numero degli utenti. Ma come dimostrano i nuovi dati, sembra che ci sia una sorte di limite a questa crescita: e i limiti non sono il numero delle persone del pianeta o il numero delle ore che possiamo dedicarci al giorno”. Il limite, spiegava, è dato dal fatto che esiste gente che Facebook “l’ha usato, l’ha provato e ha concluso: uhm, grazie no, non fa per me. E questo è proprio quello che Facebook, Mark Zuckerberg e i vari azionisti non vorrebbero che si scoprisse alla viglia della quotazione”.
Un anno dopo, la profezia di Forbes risuona ancora come una campana a morto. Ma davvero la crisi del sogno nato otto anni fa in un dormitorio di Harvard rischia di essere irreversibile? Aveva davvero ragione Ben Mezrich, l’autore del libro che fu trasformato in un film da Oscar, The Social Network, a intitolare “Miliardari per caso” la sua inchiesta? E come ritorna ancora più attuale, oggi, quel sottotitolo: “La fondazione di Facebook. Un racconto di sesso, denaro, genio e tradimento”. Dove all’alba del 2012, al tradimento da Ben attribuito a Zuckerberg – la “truffa” a quei Gemelli Winklevoss che gli avevano chiesto di costruire un software che raggruppasse gli studenti dell’università – andrebbe aggiunto il tradimento degli amici di tutto il mondo: magari attratti dai social network contendenti.
Intendiamoci: il Faceflop in Borsa ha una natura prettamente tecnico-finanziaria. Sì, c’è stato l’incredibile guasto al software del Nasdaq, la piattaforma che aveva rubato quell’Ipo, Initial Public Offering, ai rivali del New York Stock Exchange di Wall Street. Per più di mezz’ora la borsa tecnologica non è riuscita a quotare correttamente l’azione: e l’incognita ha creato panico tra gli operatori che non sapevano più quanto stavano pagando quel titolo impazzito. Risultato: centinaia di milioni di danni presentati dagli investitori, in testa il colosso svizzero Ubs che reclama perdite per 350 milioni di dollari – e adesso ha addirittura denunciato il Nasdaq.
Ma al di là del guasto c’è appunto il giudizio del mercato. I 40 dollari di azione avrebbero significato per Facebook una quotazione da 100 miliardi di dollari: la metà di Google, un quarto di Apple. Ma Google, per esempio, ha un giro d’affari di 40 miliardi, e profitti che sono esattamente di un decimo. Mentre Facebook ha un giro d’affari mica della metà, ma di neppure un decimo di Google: 3,7 miliardi. E i profitti, beh, sui profitti si discute ancora, con quel miliardo sbandierato e poi in tutta fretta subito ammainato tra le cattive notizie: gli introiti in caduta della pubblicità sui telefonini, le spese sostenute per rispondere a Yahoo che l’accusa di furto di brevetti, la scoperta che quasi un quarto dei ricavi arrivano dal social game Zynga, che minaccia un giorno sì e uno no di andare in proprio… E al peggio sembra non esserci fine.
Il Wall Street Journal proprio ieri ha calcolato che la figuraccia in Borsa ha provocato il fuggi fuggi delle altre compagnie hi-tech pronte a quotarsi: dando vita al più lungo periodo di astinenza da Ipo – finora 3 settimane – mai visto a Wall Street negli ultimi anni. La crisi di Facebook sembra però travalicare il solo, si fa per dire, disastro finanziario che ha fatto perdere al titolo in venti giorni il 30 per cento del valore: con una velocità inversamente proporzionale a quella che in meno di un anno l’aveva portato a collezionare da 700 milioni a 901 milioni di utenti in tutto il mondo. Il punto è unaltro: davvero, come aveva profetizzato un anno fa Forbes, è proprio la febbre da social forum a non bruciare più?
Qui per la verità gli esperti di si dividono: mai come oggi, in realtà, il social è di moda. Il fatto è che non si vive (più) di solo Facebook. E non soltanto perché in campo è sceso proprio un gigante come Google nel timore che la creatura di Zuckerberg diventi per il web quello che il motore di ricerca è stato negli ultimi dieci anni: il più grande collettore di pubblicità. Ok, i numeri al momento sono incomparabili: il social network di Big G ha da poco superato la soglia dei 100 milioni di utenti contro il miliardo a portata di click per la compagnia di Menlo Park. Ma è l’idea che c’è dietro a potersi rivelare, alla lunga, vincente: il social network a fasce concentriche. Contro il mare magnum di Facebook, Google Plus propone circoli più o meno grandi che raccolgono di volta in volta solo amici, solo parenti, solo colleghi e via di seguito. È la stessa filosofia insomma che sostiene il proliferare dei cosiddetti private network: da FamilyLeaf a Pair. Cioè piattaforme che come i nomi stessi suggeriscono sono riservate all’uso dei soli famigliari o – incredibile ma vero – della sola coppia. Antisocial network: il futuro passa da qui?
Come se non bastasse, a tirare le orecchie al povero ma mica tanto Zuckerberg, che col flop in Borsa ha visto scendere la sua fortuna dagli oltre 20 a poco meno di 15miliardi di dollari, ci s’è messo pure un osservatore acuto come Thomas Friedman. Il giornalista più ascoltato da Barack Obama ha alzato il velo sull’ennessimo flop: avete notato, ha osservato dalla sua tribuna sul
New York Times, come tutti gli entusiasmi che il social forum aveva suscitato durante l’Arab Spring si siano affievoliti di fronte all’incapacità di contrastare il deficit di democrazia seguito alla rivolta? Una riflessione riassunta da quella domanda che ora campeggia come l’ultima condanna: che fine ha fatto la rivoluzione di Facebook?
Per carità. Nessuno si sogna, adesso, di addossare a un ventottenne smanettone chiamato Mark Zuckerberg, svernato nella provincia di New York e poi finito fuoricorso ad Harvard, perfino le sorti della democrazia mondiale. Ma se ogni crisi – come la teoria della complessità insegna – altro non è che una concentrazione di problemi, non c’è dubbio che Facebook stia attraversando un periodo di crisi. Solo passeggera? “Credetemi: in tre, cinque anni Facebook sembrerà un altro mondo” giura a Repubblica David Kirkpatrick, il più accreditato studioso in materia, l’autore di
Facebook, la storia: “Internet evolve continuamente, i sistemi sono sempre più fluidi: e magari tra qualche anno non lo chiameremo più neppure social forum”. Ma crisi o non crisi c’è un punto fondamentale che non dovremmo dimenticare: “Facebook è ormai un mezzo di comunicazione a tutto tondo: e probabilmente solo il sorgere di un altro mezzo di comunicazione potrà soppiantarlo. Voi ne vedete all’orizzonte qualcuno?”. Sì, la fine di Facebook arrivò, come in tutte le storie d’amore che si rispettino, con il settimo anno. Ma un anno dopo, un miliardo di amici sono ancora pronti a dirsi “mi piace”.
Fonte Repubblica