Il piatto forte è però atteso per oggi pomeriggio, quando verrà presentata una relazione del Congresso statunitense dalle conclusioni esplosive. Huawei e Zte, i due giganti delle telecomunicazioni cinesi, «rappresentano una minaccia per la sicurezza nazionale degli Usa e devono essere tenute lontane da qualsiasi operazione di fusione o acquisizione di aziende americane, perché hanno legami pericolosi con le forze armate e il governo di Pechino». Le due aziende, che commercializzano i propri telefonini anche in Italia, sarebbero le teste di ponte dell’intelligence comunista, e userebbero il proprio hardware per spiare i cittadini statunitensi. «La Cina ha i mezzi, le motivazioni e l’opportunità per usare le sue compagnie di telecomunicazioni minacciosamente nei nostri confronti». Le accuse, già di per sé gravissime, assumono un carattere ancor più preoccupante se si considera che la commissione Cfius – comitato sugli investimenti esteri negli States – è presieduto dal Timothy Geithner, il segretario del tesoro Usa e il membro più influente dell’esecutivo del presidente Obama.
In realtà, non è la prima volta che gli occhi dei regolatori Usa guardano a Zte e, soprattutto, Huawei, con sospetto. Già l’anno scorso il Congresso Usa aveva preferito lasciare fallire l’azienda produttrice di server 3leaf piuttosto che lasciare che a salvarla fosse Huawei. La primavera scorsa un altolà alla multinazionale cinese era arrivato dall’Australia, alleato chiave di Washington nel Pacifico, dove il primo ministro Julia Gillard ha impedito all’azienda di partecipare alla gara di appalto per costruire la rete di banda larga in tutto il Paese. Effettivamente, guardando alla storia di Huawei, non è difficile trovare degli strani incroci con le forze armate della Repubblica popolare. Ren Zhengfei, il fondatore di Huawei, è un ingegnere che ha trascorso la prima metà della propria carriera lavorando per l’esercito cinese. La sua start-up, nata con un budget iniziale di soli 5mila dollari per importare prodotti di telefonia da Honk Kong, è diventata nel giro di pochi anni un gigante, anche grazie all’«estrema discrezione» con cui è stata gestita dall’ex ingegnere militare. Oggi Huawei è secondo sola ad Ericsson nella fornitura di strumentazioni per le telecomunicazioni a livello globale e, con 50mila chilometri di banda larga, possiede la rete più estesa al mondo. In Inghilterra, tutta la banda larga di British Telecom è costruita con materiali di Huawei e anche il “Centro di sicurezza cibernetica”, una struttura che lavora a stretto contatto con i servizi segreti britannici, è gestito direttamente da Huawei. Zte è invece accusata dall’Fbi di cooperare con il governo iraniano, cui avrebbe venduto il proprio hardware assicurando che «è facilmente controllabile dall’intelligence».
Ed è proprio questa l’accusa di Washington alle due aziende. I sistemi che vendono in tutti il mondo a prezzi stracciati conterrebbero dei “Cavalli di troia”, software capaci di captare le informazioni sensibili e di inviarli ai server dell’intelligence cinese. Non solo. I microprocessori cinesi potrebbero contenere “kill switch”, interruttori d’emergenza attivabili in remoto capaci di causare un black-out nelle reti di comunicazioni costruite con componenti “Made in China”. Uno scenario da guerra cibernetica che, per quanto possa apparire il copione di un film di fantascienza, Cia e Pentagono stanno cercando di prevenire in ogni modo.
Huawei ha ripetutamente negato ogni tipo di coinvolgimento con l’esercito di Pechino e, per aumentare la propria credibilità presso gli Usa, ha avviato le procedure per farsi quotare alla borsa di New York. La relazione del Congresso ha irritato il governo cinese che, attraverso il portavoce del ministero degli esteri, ha dichiarato: «Ci auguriamo che il Congresso Usa metta da parte i pregiudizi, nel rispetto dei fatti, e agisca in modo da portare benefici alla cooperazione tra Cina e Usa, invece di fare il contrario». Poche righe, ma che lasciano trasparire l’irritazione del Partito comunista per l’ostruzionismo del governo Usa nei confronti delle aziende cinesi. La sfida per la supremazia globale si combatte anche così.
Fonte La Stampa