Mio papà era una spia della Stasi

Dopo una serie di circostanze strane, tra cui l’incontro del padre con tre uomini a una stazione di servizio che procurarono alla famiglia un appartamento per la notte, Thomas andò a dormire con un senso di inquietudine. Che l’indomani si trasformò in orrore. Armin Raufeisen convocò i figli in una stanza assieme a un uomo che da lì a poco si sarebbe rivelato un agente della Stasi. «Mio padre – racconta Thomas – ci spiegò che il nonno non stava affatto male: eravamo fuggiti da Hannover perché lui temeva di essere arrestato. “Sono un agente della Stasi”, ci rivelò».  

Pochi giorni prima era fuggito dalla Ddr un ufficiale del servizio segreto con una lista delle spie infiltrate in Occidente, compreso Armin Raufeisen. «Ci disse che non dovevamo preoccuparci: tempo una settimana e saremmo tornati a casa. A quel punto, però, l’uomo della Stasi lo interruppe bruscamente: “Scordatevi di tornare in Occidente e di rivedere Hannover: siete fuggiti da lì, e vi stanno cercando per arrestarvi. Abituatevi all’idea che resterete qui, nella Ddr. Per sempre». 

A Thomas, che ha raccontato la sua storia in un libro, Il giorno che nostro padre ci rivelò di essere una spia della Ddr (Claudiana 2012), crollò il mondo addosso. «Piansi come un disperato. Mio fratello Michael aveva 18 anni e una fidanzata a Hannover. Cominciò a urlare come un pazzo, corse fuori minacciando di buttarsi sotto il tram. Lo salvò mia madre». Il primo shock «che distrusse in un solo colpo la fiducia e il rispetto che avevo per mio padre», fu la scoperta che quell’uomo mite che mostrava simpatie molto tiepide per la politica e che ogni mattina si recava puntuale alla fabbrica di PreussenElectra dove faceva il geofisico, conducesse una doppia vita. Che fosse una spia di quel servizio segreto che in Germania Ovest evocava solo leggende terrorizzanti. Che fosse un fervente comunista che dagli Anni 50 rubava alla sua azienda tecnologie occidentali sulla lavorazione del petrolio per girarle al regime totalitario di Ulbricht e Honecker. «Si definiva “ambasciatore della pace”. Per me il fatto che fosse una spia della Stasi non aveva nulla di avventuroso, mi faceva schifo».  

Il secondo shock «fu il furto della mia vita. Conoscevamo la triste, grigia Germania Est, avevamo parenti lì, ed eravamo felicissimi di vivere in Occidente. Mio padre ci aveva anche portati in Italia, avevo visto il Vesuvio, l’Etna, insomma io amavo la mia vita». La famiglia si trasferì dopo sei mesi in un appartamento al centro di Berlino. I primi tempi nella scuola furono un incubo: Thomas non si fidava di nessuno. Ma soprattutto, sapendo che la sua famiglia veniva dalla Germania Ovest, «erano gli altri a non fidarsi di noi, a sentire odore di Stasi. Del resto, chi poteva essere così pazzo da venire volontariamente nella Ddr?». 

Dopo poche settimane, il padre di Thomas si rese conto dell’errore commesso, dell’inferno inflitto alla famiglia. Al fratello Michael, all’epoca già maggiorenne, fu fortunatamente concesso di tornare a Hannover. «Noi no, noi fummo costretti a restare. Mio padre capì finalmente che la Germania Est era un regime totalitario», ricorda Thomas, non senza una vena di amarezza. Armin Raufeisen iniziò a organizzare il ritorno a Ovest. Prima per vie legali, inutilmente. Poi cominciò a pensare alla fuga. All’epoca, all’inizio degli Anni 80, quella famiglia divenne l’avanguardia di un’azione successivamente diffusissima: cercò riparo nell’ambasciata della Germania Ovest in Ungheria e chiese il lasciapassare per varcare la Cortina di ferro. Il primo tentativo fallì, i Raufeisen tornarono a Berlino, ma ricominciarono subito a pensare a un nuovo modo per lasciare la Ddr.  

Un giorno il padre avvicinò addirittura un militare americano per offrire i suoi servigi alla Cia. «Sa, era pratico del mestiere – ironizza Michael – ma l’americano, purtroppo, non si mostrò interessato». La famiglia all’epoca era sorvegliata notte e giorno dalla Stasi, che ne aspettava il primo passo falso. Non tardò ad arrivare. 

Un giorno, mentre stavano organizzando una nuova fuga attraverso l’Ungheria, sentirono suonare alla porta. Erano alcuni agenti della Stasi con un mandato di arresto per tutta la famiglia. Fu l’inizio di un secondo calvario, peggiore del primo, che al padre costò la vita.  

«Nel 1981 fummo arrestati “per chiarimenti”, e portati a Hohenschönhausen, il carcere della Stasi. Io avevo 18 anni, fui isolato, vidi i miei genitori quattro volte in un anno. L’ufficiale che mi interrogò per tutta la prima notte mi disse subito che mi conveniva parlare: “Abbiamo tutto il tempo del mondo”. Mi si gelò il sangue nelle vene, intuì che mi avrebbero potuto lasciare in quel buco tutta la vita. Dopo molte ore di urla, intimidazioni, lusinghe e minacce, confessai che avrei voluto espatriare, ammisi la mia colpa, se così si può chiamare». Thomas pensava che sarebbe finita lì, invece lo lasciarono un anno intero in carcere. Poi processarono la famiglia: a lui diedero tre anni, alla madre sette, mentre al padre fu inflitto l’ergastolo. Armin Raufeisen morì in circostanze misteriose nel 1987. Thomas fu espulso dalla Ddr nel 1984. Oggi non ha nemici, dice, e ha perdonato suo padre da un pezzo. Ma disprezza chi rimpiange quel regime, o peggio, «chi sarebbe disposto a rinunciare anche a un briciolo della libertà occidentale per un po’ di sicurezza sociale in più. Un pensiero criminale».  

Fonte La Stampa