Turchia potenza di area. E’ il solo sceriffo di forme e sentimenti democratici in gran parte condivisi con l’occidente che, in un conflitto con suo vicino travolto dalla follia di una impietosa repressione interna, non potrebbe essere accusato di intromissione giudaico-cristiana. La Turchia musulmana può intervenire oltre i suoi confini per presunte ragioni di sua sicurezza, come già sta facendo sul nord dell’Iraq in chiave anti guerriglia curda. Ovviamente limitando il suo intervento in termini di territorio siriano da occupare. Non il confronto decisivo con l’esercito di Assad, ma la creazione di uno spazio territoriale che allontani dai suoi confini alcune minacce (non ultima quella curda che potrebbe venire sia dalla Siria che dall’Iran), e facilitare l’organizzazione e l’armamento della opposizione siriana combattente. Resterebbero i tempi lunghi del martirio per la Siria, ma sarebbe comunque un’accelerazione verso una sperata soluzione interna senza bombe “umanitarie”.
Effetto domino scongiurato. Altro elemento a favore dell’intervento turco, il superamento dell’incubo della reazione a catena. Siria che trascina l’Iran e il Libano degli hezbollah, con Israele che non resisterebbe alla tentazione di saldare i conti col nucleare di Teheran. Siamo ovviamente nel campo delle pure ipotesi, ma Ankara ha buoni rapporti, soprattutto commerciali, con gli Ayatollah e con il loro petrolio. Viene considerata parte terza tra le fazioni libanesi e la sua recente rottura nei rapporti storici con Israele ne avalla la credibilità in tutto il contesto musulmano. Una sorta di arbitro naturale nel contenzioso politico religioso tra sunniti e sciiti. In questo gioca la storia di tollerante equilibrio nella memoria del califfato ottomano. Con dati più recenti, calcolo della potenza militare in campo, che potrebbero a loro volta mitigare la portata delle reazioni. La Turchia, va ricordato, ha il secondo esercito Nato dopo quello Usa. Superpotenza mediorientale con Israele.
La geografia nemica. La storia aiuta, la geografia impone decisioni urgenti. Migliaia di chilometri di confine diretto tra Turchia e Siria. Dalla costa Mediterranea e dalla storica Antiochia, sino al tratto di fiume Tigri condiviso dove l’Anatolia cede il passo alla Mesopotamia. Pezzi di storia e di cultura infiniti, oggi sostanzialmente cancellati dal conflitto. Per memoria del rimpianto ne ricordiamo alcuni, dalla martoriata Aleppo in terra siriana alla turca Antiochia, dove la setta ebraica che adorava Jesus come figlio di Dio prese il nome di Cristiani. O Sanliurfa, terra di Abramo. Verso est sino alla fonti di Tigri ed Eufrate che daranno origine all’Eden biblico sul golfo arabico. Tanta storia non cambia la geografia, e la minaccia, tutta turca del confluire, attorno al confine di Cizre e sulle montagne di Hakkary, delle spinte dalle minoranze curde siriane e iraniane. Con il Kurdistan iracheno che ormai s’è fatto Stato con capitale Arbil, a tre passi dal petrolio di Mosul e Kirkuk.
La Russia come l’Urss? Nell’attesa che qualcuno a Washington dia ad Ankara il “consiglio” decisivo, si chiami Obama o Romney, in Turchia i più accorti fanno anche i conti dei “contro” rispetto all’iniziativa militare. Primo fra tutti il rigoroso musulmano Recep Tayyip Erdoğan (pronuncia alla turca Erdo-an, con la g muta). La Turchia del suo partito, l’Ak-party, è soprattutto pragmatica. Quasi quanto la Russia di Putin, e sul gas e sul petrolio russo in transito obbligato attraverso la Turchia verso l’occidente assetato, ci contano e ci guadagnano in molti. Oleodotti già operativi e altri in costruzione (con l’Eni cointeressata). Quindi, nessuna minaccia diretta alla presenza militare Russa nella base navale di Tartus, con un eventuale sconfinamento limitato, quanto basta a spezzare l’asse tribal-territoriale dei clan sciiti- alawiti fedeli alla famiglia di Assad che corre oggi appunto lungo la fascia mediterranea siriana, imprigionando la sua opposizione.
Fonte Globalist