Anche se posta un commento oltraggioso su You Tube firmato zio Paperone, c’è sempre un numero che identifica la connessione e che consente quindi di risalire alla vera identità dell’utente. Qui stiamo parlando di pseudonimi, non di anonimi, sebbene il confine fra i due concetti sia recentemente saltato con il fenomeno di Anonymous, che è lo pseudonimo di una rete anonima di attivisti che fa disperare governi e multinazionali e che difende, appunto, la libertà in rete. Fin dagli albori, infatti, nessun luogo è parso più adatto della Rete ad assumere identità multiple. Nelle prime chat di Internet poteva capitare di passare ore o anche mesi a parlare con qualcuno senza essere sicuro nemmeno del fatto che fosse maschio o femmina. Poi è arrivato il world wide web e la tendenza verso l’utilizzo di identità fasulle ha trovato il suo apice nel mondo parallelo di Second Life. È durato una stagione, il pendolo è improvvisamente passato dalla parte delle persone reali con l’avvento di Facebook: la piattaforma di Mark Zuckerberg infatti funziona costruendo per ciascun utente una rete di relazioni che hanno senso solo per persone vere. Come puoi suggerire l’amicizia di qualcuno che è stato a scuola con te o che tifa per la tua stessa squadra, se il tuo profilo è totalmente inventato? Facebook è così riuscita nell’impresa di far registrare quasi un miliardo (il traguardo è imminente) di persone reali con i loro dati. Poteva essere la fine degli pseudonimi e invece non è stato così, perché su Twitter ciascuno può prendersi il nome che vuole: ed è vero che i profili più seguiti sono quelli di persone autentiche e fortemente riconoscibili, da Lady Gaga a Obama, ma nessuno vieta di inventare un account di grande successo (come per esempio la parodia della regina d’Inghilterra, che nessuno sa chi sia).
Ora è il turno di YouTube: rilancia le nymwars per evitare di essere infestata di migliaia di commenti oltraggiosi sotto ogni video. Ma pare purtroppo dimostrato che non basta imporre agli utenti di usare le proprie identità reali per ridurre in modo significativo la piaga dei disturbatori: la Co- rea del Sud ci ha provato invano, ottenendo un miglioramento dello 0,9 per cento. La questione nomi reali/pseudonimi non ha quindi una soluzione definitiva, ma dipende, oltre che dal buon senso, dalla piattaforma tecnologica (e dal modello di business che c’è dietro: Facebook e Google vendono profili mirati di utenti specifici, Twitter vende l’analisi di miliardi di tweet per analisi sociali di massa). Come nella vita, così nella Rete ci saranno luoghi dove potremo andare senza dire chi siamo o inventando delle identità, ed altri dove invece dovremo mostrare i documenti (ovvero registrarci magari usando i dati che abbiamo già dato a Facebook, tramite la funzione Facebook Connect). Sapendo che nel secondo caso ci saranno più controlli e quindi meno libertà.
La minore libertà è il motivo che ha reso il dibattito così infuocato ai tempi di G+. Ma anche quando Facebook ha provato a costringere lo scrittore Salman Rushdie a cambiare nome per prendere quello usato sul suo passaporto. O quando, qualche giorno fa, Twitter ha provato a cancellare il profilo di un giornalista dell’Indipendent che aveva postato un messaggio ritenuto inopportuno. In tutti questi casi è accaduto un fatto importante: la “community” degli utenti è insorta costringendo i proprietari della piattaforma a impacciate marce indietro. Pseudonimi o no, oggi gli utenti contano di più dei fornitori del servizio.
Fonte Repubblica