Poi, nel 1990, era tornato in Libia deciso a «colpire tutti gli infedeli». Secondo quanto emerso da alcuni documenti resi noti da ex agenti dei servizi segreti britannici, a Bengasi aveva fondato il Libyan Islamic Fighting Group, un’organizzazione terroristica legata alla galassia di Al Qaida.
Grazie ai finanziamenti e all’aiuto logistico da parte della Cia e dell’Mi6, Belhaj nel corso degli anni Novanta aveva tentato più volte di rovesciare il regime di Gheddafi, organizzando colpi di Stato sempre falliti. Aveva anche tentato inutilmente di assassinare il presidente libico. L’ultimo tentativo risale al 2000.
Fuggito in Malesia, sempre secondo fonti dell’intelligence britannica, avrebbe avuto un ruolo (anche se marginale) nell’organizzazione dell’11 settembre. Anche per questa ragione, su di lui l’Fbi aveva messo una taglia di un milione di dollari.
Individuato a Kuala Lumpur nel 2004, Belhaj venne rapito da un commando speciale dell’esercito americano e consegnato alla stazione della Cia di Bangkok, in Thailandia. Secondo lo stesso generale, gli agenti dell’Agenzia lo hanno torturato per due anni, prima di consegnarlo a Gheddafi, «nella speranza che le sevizie dei soldati del Raìs mi facessero raccontare quello che gli americani non erano riusciti ad estorcermi», ha aggiunto Belhaj.
Sulla base di documenti resi pubblici da Human Rights Watch, dal 2002 al 2007 Gheddafi è stato protetto e finanziato da Washington e Londra perché visto come baluardo della laicità nel mondo islamico. Moussa Koussa, un alto funzionario del regime libico, che ha avuto anche un ruolo di primo piano nella strage di Lockerbie, ha dichiarato alla Bbc che la collaborazione tra Usa, Regno Unito e Libia era così forte che «per anni Inghilterra e America hanno consegnato centinaia di dissidenti libici a Gheddafi, molti dei quali scomparsi nel nulla.
«Quando nel 2010 hanno deciso che Gheddafi andava abbattuto si sono rivolti di nuovo a me. Non ci potevo credere, dopo tutto quello che era accaduto. Ma mi offrivano la possibilità di cacciare Gheddafi, e anche di ucciderlo», ha concluso il comandante dei ribelli libici Belhaj.
Fonte Globalist