I valori più probabili sono, rispettivamente, 130 e 180. Lo studio non è stato condotto da epidemiologi ma da due esperti in scienza dell’atmosfera, Mark Z. Jacobson e John Ten Hoeve – docente e ricercatore presso l’ Università di Stanford – ed è infatti pubblicato su Energy and Environmental Science.
Non sono certo i primi che tentano una stima, sebbene la loro sia la prima estesa a tutto il mondo. Non più di due mesi fa, l’ Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e la Commissione Scientifica delle Nazioni Unite per gli Effetti della Radiazione Atomica (Unscear) pubblicavano su Nature i primi risultati di due studi epidemiologici sugli impiegati presso Fukushima Daichii e sugli abitanti dell’area compresa in un raggio di 20 chilometri dall’incidente. I dati sono in linea con questi ultimi: per ora, mostrano che poche decine di giapponesi rischiano di sviluppare un tumore in seguito al disastro nucleare e che, in ogni caso, non si saprà mai con certezza se la causa sia davvero quella (le due ricerche saranno completate entro l’anno e discusse a Vienna, al meeting annuale dell’Unscear).
Come riportano gli autori del nuovo studio, nel caso di Fukushima, la maggior parte degli inquinanti radioattivi si è riversata nell’oceano (81% contro 19%). A pochi giorni dalla tragedia, già si parlava di 11.500 litri di acqua altamente contaminata sversata in mare, che minacciavano la risorsa ittica. E in Italia, il Ministero della Salute aveva dichiarato di aver “ disposto l’aumento dei controlli sui prodotti alimentari, soprattutto pesci, crostacei, caviale, soia, alghe, tè verde”. A maggio del 2011 avevano fatto scalpore i tonni che dal Giappone avevano raggiunto la California, e che mostravano livelli di isotopi radioattivi superiori alla media.
Dopo sei mesi, la radioattività superava persino quella di Chernobyl. A un anno dal disastro, però, il quadro appariva già meno drammatico, almeno per la popolazione giapponese, se non per l’ambiente: l’esposizione alle radiazioni sembra essere stata minima, anche grazie ai venti che hanno giocato a favore, spirando verso il mare. Infatti, secondo le analisi della Fukushima Medical University, il 99,3 per cento delle 10mila persone residenti vicino alla centrale e sottoposte a screening avrebbe ricevuto meno di 10 millisieverts (mSv) di radioattività nei primi quattro mesi dopo l’incidente.
Altri studi, invece, hanno stimato che, a causa delle piogge, in diverse aree si sarebbero depositati tra i 10 e i 600 kBq∕m 2 di cesio-137 (uno dei contaminanti più pericolosi) e che la combinazione tra l’esposizione acuta e quella a lungo termine potrebbe portare a migliaia di casi di tumore anche in Europa e in Asia.
È normale, quando si ha a che fare con situazioni così complesse, che i dati siano contraddittori. Quelli di Jacobson e Ten Hoeve arrivano dal loro modello Gator-Gcmom, sviluppato in 20 anni di ricerche. Gli scienziati hanno simulato le emissioni, il trasporto, il decadimento, l’addensamento aerosol–aerosol e delle nubi, le precipitazioni, il dilavamento e la deposizione dei radionuclidi (iodio 131, cesio 137, cesio 134 e bario 137) a livello mondiale.
Come era prevedibile, il maggior numero dei casi di tumori è stimato per il Giappone; conseguenze, molto meno gravi, ci saranno anche per l’Asia continentale e il Nord America. Per esempio, per gli Stati Uniti si stima un numero di decessi compreso tra 0 e 12. “ Si tratta di numeri relativamente bassi, che potrebbero servire, in futuro, a gestire la reazione della popolazione in paesi diversi da quello colpito dall’incidente nucleare”, ha sottolineato Ten Hoeve.
I numeri sono piccoli anche rispetto ai decessi causati dall’ evacuazione stessa, che ha mietuto 600 vittime tra persone anziane o malate. Ma è impossibile generalizzare. Oltre al fatto che l’evacuazione è una misura di sicurezza fondamentale e obbligatoria, lo stesso tipo di incidente in un’area diversa potrebbe avere effetti molto più gravi. A incidere sembrano essere la posizione geografica – e in particolare la lontananza del mare – e i parametri meteorologici più che la densità della popolazione.
A titolo di esempio, i ricercatori hanno analizzato uno scenario ipotetico: una fusione del nucleo della centrale di Diablo Canyon (in California) identica a quella di Fukushima. In quel caso, gli effetti sulla salute degli abitanti (tra cui quelli di San Diego e Los Angeles) avrebbero un impatto del 25% più grande.
Fonte Wired