Resta il fatto che quello dello spionaggio che non è ufficialmente spionaggio ma è possedere conoscenze riservate, segreti, è un mondo a parte. Animato da servizi, aziende, gruppi, esperti, organizzazioni, istituti e think tank che si muovono nell’ombra. Tutti impegnati in attività di spionaggio che spesso sfuggono al controllo governativo e le cui dimensioni sono difficilmente stimabili anche dagli esperti di sicurezza. Negli Usa l’influente periodico online Salon.com scrive che il fenomeno ricorda il maccartismo al tempo della Guerra fredda e i complotti organizzati dal Cointelpro, un braccio illegale dell’Fbi di Hoover negli anni Sessanta contro chi si opponeva alla guerra in Vietnam. La situazione è di tale gravità che anche il Washington Post, terzo quotidiano statunitense, di tendenze conservatrici, ne ha denunciato i pericoli dedicandogli un’inchiesta.
I numeri fanno paura. Quasi seimila organizzazioni -di cui duemila private- che raccolgono informazioni e fanno monitoraggio di tutti i tipi, quando non sono direttamente incaricate di condurre operazioni di ordine pubblico. Circa 10.000 installazioni segrete dedicate alla sorveglianza e alla raccolta dei dati personali degli americani e al controllo delle loro attività, sia sul web che nella vita privata. Oltre un milione i nuovi addetti, a partire dall’11 settembre del 2001, ogni anno si producono più di 50.000 rapporti riservati che, nella maggioranza dei casi “servono ai politici per impaurire il pubblico”, spiega Dana Priest, una dei due autori dell’inchiesta del Post. Duecentomila consulenti privati con le security clearance (certificati di sicurezza) più alte che esistano. Quelle che danno accesso ai segreti di Stato, a fatti che si discutono nella situation room alla Casa Bianca.
Le attività delle spie private? Prendere parte alle manifestazioni pacifiste o di protesta sociale e, dall’interno, denunciare potenziali “terroristi”. Karen Sullivan, una talpa che l’Fbi, racconta il Post, “S’è presentata come una lesbica con una figlia adolescente e una relazione difficile con la partner”, ha dichiarato Jess Sundin, uno dei pacifisti arrestati. Una sorte simile spesso tocca ai musulmani che frequentano le moschee dei quartieri degradati alla periferia delle città americane. Gente come quattro afroamericani di uno dei quartieri più poveri di Newburgh, una città della Hudson Valley a una sessantina di chilometri da New York. I quattro sono stati denunciati alla polizia prima che potessero commettere attentati. A svelare i loro piani è stata una soffiata di Shahed Hussain, un informatore dell’Fbi in quella che il network projectsalam.org definisce una strategia del Bureau.
All’Fbi la chiamano “strategia di controllo delle probabilità statistiche”. Ovvero la verifica empirica sulle proiezioni statistiche formulate dagli analisti dell’agenzia rispetto ai potenziali focolai di dissenso politico. E così informatori ben pagati come Hussain vengono inviati nelle moschee statunitensi per scovare terroristi in erba offrendosi di finanziare i loro attentati. La strategia ha funzionato in questo caso. Poveri, illetterati, neri e con trascorsi penali, i quattro s’erano fatti ammaliare dai regali di Hussain e dall’offerta di 250 mila dollari per commettere un attentato. E’ andata diversamente nel caso di Khalifah al-Alkili, un trentaquattrenne di Pittsburg. Qui la strategia si è in parte rivolta contro la stessa Fbi. Giovane ed esperto delle nuove tecnologie, al-Alikili è riuscito a smascherare Hussain ma ha anche chiesto aiuto al quotidiano britannico The Guardian.
L’orecchio della Nsa. Secondo Skousen, la rete di sorveglianza messo a punto dalla National Security Agency, l’agenzia segreta più segreta degli Stati Uniti, ogni 24 ore intercetta oltre 1,7 miliardi di comunicazioni personali degli americani. Una media di sei comunicazioni quotidiane per ogni statunitense vivente, incluso i neonati, gli infermi e gli incarcerati. Un oceano di email, telefonate, messaggini, bill board posting e conversazioni di cellulare che vengono poi distribuite alle agenzie più disparate per analisi e possibili azione. New York Times e Washington Post denunciano che buona parte di questa dubbia sorveglianza la conducono aziende private prive di qualsiasi mandato ufficiale. Secondo Democracy Now, un buon terzo delle operazioni di sorveglianza e enforcement a stelle e strisce le conducono contractor privati e agenzie sconosciute.
Nella lista dei privati pubblicata dalla Priest nel reportage Top Secret America figurano i soliti ignoti del settore guerrieri privati: aziende come la Raytheon; la Booz Allen Hamilton: la L-3 Communications: la Csc; la Northrop Grumman; la General Dynamics, la Blackwater e la Saic, che esibiscono bilanci da miliardi di dollari. Ciò che stupisce è che un buon 70 per cento sono aziende che fatturano meno di cento milioni di dollari e raramente superano il centinaio di addetti. A dimostrazione che la sicurezza negli Usa è un “affare di famiglia”, condotto in gran parte da piccole aziende, che fanno controlli fiscali, intercettazioni telefoniche e internet, analisi mediche. Un labirinto di appaltatori e sub-appaltatori che lavora sia per agenzie governative -dalla National Security Agency ai dipartimenti di polizia- sia per banche, industrie, scuole e i datori di lavoro.
Con salari minimi sui 90 mila dollari l’anno e incentivi legati al volume di dati prodotti e delle condanne ottenute, è comprensibile che questi continuino a sfornare analisi, rapporti su possibili attentatori, con avvisi di reato, perquisizioni e ordini d’arresto preventivi. “E’ difficile che queste attività non abbiano un impatto negativo sulla nostra cultura e sulla maniera in cui viviamo”, ha osservato sconsolata la Priest in un’intervista alla Public Radio. E il Italia? Su questo fronte mancano notizie e quel giornalismo investigativo del NYT e del Post. Ci resta la memoria ormai sbiadita dello scandalo dello spionaggio privato Telecom anno 2010. Ragione commerciale, «Informazioni-investigazioni di ordine approfondito in area nazionale su persone fisiche finalizzate a poter tracciare un indice di affidabilità, con riferimenti patrimoniali e indicatori di rischio». Basta volerci credere.
Fonte Globalist